Il Radar

Con Corradino Guacci sulle orme degli orsi, tra norme e parchi naturali

Corradino Guacci - foto orso di Paolo Forconi - elaborazione centro stile ilradar.it

Il Radar è attento alla tematica ambientale senza trascurare la necessità di abbinare al rispetto per l’ambiente lo sviluppo economico. Questa settimana, a proposito di tematiche green abbiamo sentito il presidente della Società Italiana per la storia della Fauna, Corradino Guacci che ha risposto con entusiasmo alle nostre domande

In qualità di presidente della Società Italiana per la storia della Fauna, e con la sua esperienza professionale in tematiche di rilievo ambientale, vorrei sapere che cosa pensa riguardo alla necessità di dover innevare con i cannoni le piste da sci. Siamo stati a Roccaraso e abbiamo notato un paesaggio brullo quasi come se l’inverno non ci fosse stato. Quali ricadute dovrebbe avere questa condizione sull’ambiente e anche sugli interessi del territorio a suo parere?

La carenza di neve non è un problema degli ultimi due o tre inverni, già nell’aprile del 1993 la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (CIPRA) pubblicava un opuscolo dal titolo eloquente “Alpi ed effetto serra”. Si tratta di un fenomeno ormai acclarato che difficilmente può essere disconosciuto: la neve oggi arriva con due settimane di ritardo e scompare almeno sei settimane in anticipo rispetto a mezzo secolo fa. Ciò comporta un impatto robusto non solo sull’economia del turismo invernale basato sulla pratica dello sci ma anche sulla produzione di energia idroelettrica, sulla disponibilità idrica per scopi agricoli, industriali e civili. Il tentativo di ovviare con l’innevamento artificiale è, a mio avviso, una pezza peggiore del buco rendendo la neve, già rara, anche costosa. Una pratica non sostenibile economicamente, che comporta uno sperpero di denaro pubblico e la sottrazione di una risorsa sempre più preziosa: l’acqua. Mentre negli anni 80 la neve artificiale andava a integrare quella naturale oggi è il presupposto indispensabile per poter aprire gli impianti. L’Italia, tra l’altro, è la nazione alpina che dipende di più dall’innevamento artificiale, una pratica che interessa il 90% delle piste. Se Atene piange Sparta non ride… se sulle Alpi il calo della neve è quantificabile in un 53% circa, sugli Appennini la situazione è, se possibile, drammatica in relazione alla diversa quota neve dovuta alle minori altitudini. Un recente studio della Università della Svizzera italiana ipotizza il 2040 come ultima data in cui si potrà sciare sui versanti alpini, eppure diverse Regioni continuano a investire centinaia di milioni di euro in infrastrutture e impianti di innevamento artificiale che nel giro di pochi anni saranno totalmente inutili.
È ora di iniziare a pensare a una fruizione della montagna non “impianto-centrica” e, di conseguenza, orientare i finanziamenti destinati al turismo verso attività eco-sostenibili e compatibili con il climate change e soprattutto “spalmate” sull’intero anno e non solo su tre mesi invernali.

Possiamo raccontare ai nostri lettori esattamente in cosa consistono il suo lavoro e la sua formazione? Cioè lei lavora direttamente a contatto con la fauna oppure si occupa di macro problematiche?

La mia formazione è economicistica con la passione, fin da bambino, per gli animali e la Natura in generale che mi ha spinto ad approfondire le mie conoscenze in tal senso parallelamente alla mia attività principale. Dalla seconda metà degli anni 70 ho frequentato molto spesso il Parco nazionale d’Abruzzo, di cui sono stato consulente e consigliere di amministrazione. Qui ho avuto modo, collaborando con il Centro studi ecologici appenninici di Pescasseroli, di seguire sul campo amici che della ricerca naturalistica hanno fatto, in seguito, la loro attività principale. Tematiche che ho continuato ad approfondire parallelamente alla vita di tutti i giorni che mi ha visto operare in banca, nel campo finanziario, in amministrazione e, negli ultimi quindici anni, come dirigente di un ente pubblico. Dal 2011 ho potuto dedicare più tempo alle mie passioni contribuendo a fondare la Società italiana per la storia della fauna, associazione di ricerca intitolata a Giuseppe Altobello medico e zoologo molisano che, nel 1921, descrisse come sottospecie endemiche l’orso bruno marsicano e il lupo appenninico.

Recentemente è stato pubblicato un suo libro, nel quale lei racconta il rapporto tra l’uomo e la fauna, in particolare lo scontro uomo- lupo. Senza spoilerare, ci può raccontare qualcosa e che tipo di ricerche storiche ha fatto per cercare dati numerici a sostegno della sua tesi?

Storie di uomini, orsi e lupi nel Parco d’Abruzzo delle origini 1921-1933 è l’undicesimo titolo edito nella serie Wunderkammer, Naturalia et Mirabilia, collana editoriale della nostra Società che si occupa, in particolare di studiare i rapporti storici ma anche attuali tra Uomo e grande fauna selvatica. Il volume, di oltre seicento pagine, raccoglie le ricerche svolte alla fine degli anni 80 tra le carte dell’archivio storico del Parco nazionale d’Abruzzo. In particolare l’epistolario intercorso tra Erminio Sipari e i primi due direttori dell’Ente, Carlo Paolucci e Nicola Tarolla. L’esame ha riguardato oltre 600 documenti relativi ai primi passi, a volte contrastati, per la tutela dell’orso e gli esiti della guerra dichiarata al lupo visto come una minaccia per l’economia pastorale, ancora centrale nell’Alto Sangro dei primi anni del Novecento.

Necessariamente questa tematica si intreccia con quella del rapporto uomo-orso. Vorrei sapere lei come uomo e come tecnico che idea si è fatto dello scontro in atto in Trentino e della presenza di orsi anche in un territorio di suo interesse quale è l’Abruzzo.

In Trentino, la tragedia accaduta al giovane runner Andrea Papi ha segnato un discrimine tra il prima e il dopo. Ma un precedente cambio di paradigma era già avvenuto, nel 2004, con l’avocazione a sé della gestione del Progetto Life Ursus da parte della Provincia Autonoma di Trento. Non ritengo che la politica sia una buona consigliera sui temi della conservazione, quest’ultima dovrebbe rimanere appannaggio dei tecnici. Personalmente penso che il progetto di introduzione, perché di questo si tratta e non di conservazione come viene presentato (essendo rimasti all’epoca solo tre individui non più in età riproduttiva) sconti un vizio di origine non avendo prevista una più opportuna impostazione interregionale e, possibilmente, transfrontaliera. Certamente più complicata considerando che mettere d’accordo più Regioni e più Paesi avrebbe richiesto indubbiamente un notevole sforzo di mediazione senza garanzie di successo, ma in tal modo si sarebbe evitata quella concentrazione della popolazione ursina in una sola parte della Provincia di Trento che sta creando i problemi a tutti noti. Non saranno certo gli otto orsi che si pensa di abbattere ogni anno che cambieranno i rapporti tra le comunità e il nuovo inquilino delle Alpi ma sarà necessaria un’opera incessante di formazione e informazione mirata a far nascere e crescere una cultura della convivenza e della consapevolezza.
Il problema in Abruzzo è per alcuni versi analogo nel senso che la densità della popolazione ursina ha raggiunto il limite di portanza del territorio e la prospettiva di salvezza della esigua popolazione marsicana sta nella sua espansione lungo la dorsale appenninica. La difficoltà sta, come in Trentino, nella filopatria delle femmine ovvero nella riluttanza di queste ultime ad allontanarsi dai siti di alimentazione, svernamento e riproduzione lasciando così soli i maschi nei tentativi di nuove colonizzazioni. La nostra proposta, ormai risalente a dieci anni fa, di istituire una banca genetica per l’orso bruno marsicano va in questa direzione, ovvero facilitare l’espansione della popolazione appenninica ed evitare la possibilità, adombrata dall’ISPRA di un rinsanguamento di quest’ultima con esemplari balcanici appartenenti ad altra sottospecie, un intervento che cancellerebbe un esperimento evoluzionistico in essere da qualche migliaio di anni. Senza contare che potrebbe essere compromessa la ben nota mansuetudine del marsicano che ne consente l’accettazione in un territorio fortemente antropizzato.

Corradino Guacci

Da storico della fauna ci può dire se negli ultimi 100 anni c’è stata una diminuzione delle biodiversità oppure delle specie che un secolo fa non erano minacciate e oggi sono a rischio estinzione?

Da più parti si sostiene che stiamo vivendo la sesta estinzione di massa. Un evento quindi già verificatosi più volte nella storia del Pianeta a seguito di un aumento del carbonio negli oceani e nell’atmosfera, un incremento dovuto però a cause naturali. L’avvento della rivoluzione industriale ha prodotto un repentino incremento di anidride carbonica che ha impresso un’accelerazione esponenziale alle dinamiche di estinzione che prima si verificavano in tempi lunghissimi consentendo l’alternarsi tra estinzioni e comparsa di nuove specie. L’effetto serra ha portato infatti a un aumento delle temperature al quale molti organismi viventi non sono in grado di adattarsi in tempi così rapidi. A ciò va aggiunto l’inquinamento dell’aria, acqua, suolo…lo sfruttamento commerciale con tutto ciò che ne consegue. Menzioniamo anche la caccia la cui pressione in alcuni casi ha determinato scomparse “appariscenti” e più immediatamente visibili.  Due le storie di estinzione recentissime, avvenute all’inizio di questo secolo, lo Stambecco dei Pirenei e il Rinoceronte bianco del nord. Ambedue, causate dalla persecuzione diretta dell’uomo, possono offrirci un insegnamento. Nel primo caso la mancanza di una banca genetica predisposta per tempo ha reso impossibile il tentativo di riportare in vita la specie, nel secondo l’avere per tempo provveduto a conservare gameti maschili e femminili sta consentendo, attraverso tecniche sofisticate di riproduzione assistita, il recupero di questo possente abitante delle savane africane. Alcune valutazioni sul ritmo di estinzione parlano di tre specie all’ora, tremila all’anno, il WWF sostiene che negli ultimi quattro decenni abbiamo “accompagnato” verso l’estinzione il 60% delle specie viventi. La biodiversità è ricchezza, è essenziale per la vita sulla Terra. Da qui discende la necessità di frenare l’erosione di specie viventi, obiettivo raggiungibile solo con un radicale cambiamento di rotta. Un contributo in tal senso può venire dalle  banche del germoplasma anche se i grandi fattori di cambiamento, quelli determinanti come i mutamenti climatici e l’inquinamento, rimangono sullo sfondo e a questi soprattutto vanno rivolti i nostri sforzi.

Vorrei che ci dicesse qualcosa in merito all’uccisione di Amarena e alle polemiche seguite alla morte di Juan Carrito. Si è detto che sarebbe stata la disattenzione della politica a procurare queste morti. Posso chiederle lei che idea si è fatto?

La morte di Amarena, Juan Carrito e degli altri 130 (per quello che è noto…) orsi marsicani scomparsi negli ultimi cinquant’anni costituiscono una grave perdita di biodiversità causata anche dalla poca attenzione che l’uomo riserva a questo prezioso endemismo. Una popolazione superstite, di appena una cinquantina di esemplari, sopravvissuta con incredibile tenacia sulle montagne del centro Italia. La politica può essere certamente di stimolo con l’adozione di efficaci normative ma è l’azione degli organismi deputati alla conservazione che fa la differenza. Infatti se si considera la sottospecie marsicana non molto diversa dall’orso eurasiatico (del quale sono presenti decine di migliaia di esemplari) si arriva al paradosso che l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ne suggerisca il rinsanguamento con esemplari balcanici. Se poi la missione dei Parchi viene confusa con quella di una pro-loco, dove l’obiettivo primario non è più come prevede la legge 394/1991 quello della conservazione, bensì la promozione del turismo promuovendo iniziative di “valorizzazione” che invadono il territorio dell’orso, allora l’obiettivo della salvezza si allontana sempre più.

A causa delle variazioni climatiche si sta registrando un ritardo nell’inizio del letargo di diversi animali e, probabilmente, un anticipo della sua fine. Quali danni può comportare ciò per gli animali, e per l’ecosistema?

Non solo si sta verificando un ritardo nell’inizio del periodo di ibernazione e la durata dello stesso per quanto riguarda gli orsi ma si sta verificando in generale una modifica delle abitudini di molte specie animali con lo spostamento a latitudini e altitudini maggiori. Inoltre il climate change influisce sulla fruttificazione di molte essenze appetite dall’orso riducendone la disponibilità o modificando i tempi di maturazione così come l’anticipo della primavera fa sì che quando a luglio i piccoli di stambecco terminano lo svezzamento trovano pascoli già aridi non nutrienti con conseguente aumento della mortalità. Uno studio analogo si sta conducendo sui camosci. Considerando le strette relazioni che legano l’ambiente fisico con gli organismi viventi attraverso le catene alimentari si può ben immaginare quali le conseguenze sugli ecosistemi. In Spagna, ad esempio, una ONG come la Fondazione Orso Bruno in partnership con il Ministero della transizione ecologica locale e alcune amministrazioni regionali come Castiglia e Léon e Asturie stanno portando avanti un progetto Life molto interessante e lungimirante. Si tratta del “Bears with a future” che prevede di limitare l’impatto dei cambiamenti climatici sulle risorse alimentari dell’orso bruno piantando alberi e arbusti fruttiferi che, a causa delle variazioni di temperatura e umidità, potrebbero sostituire le essenze attualmente utilizzate (castagno al posto del faggio, ciliegio e frangola in alternativa al mirtillo).

La sua opera è interessata in maniera particolare ai lupi. Recentemente con la nostra testata abbiamo parlato di una modifica genetica nei lupi del territorio della centrale nucleare di Chernobyl. Pare che questi canidi abbiano modificato il loro DNA per poter sopravvivere alle radiazioni. Secondo gli studi in corso si tratta di lupi che hanno dei meccanismi che potrebbero resistere anche al cancro. Che idea si è fatto in proposito? Pensa che si tratti di qualcosa di positivo o di negativo? E se fosse positivo pensa che lo stesso meccanismo si potrebbe replicare anche sull’uomo in futuro?

Auguriamoci di non dover sperimentare sulla comunità umana gli effetti di dosi così massicce di radiazioni per testarne le conseguenze a lungo termine. Per poter dare una risposta soddisfacente dovrei possedere delle competenze che non mi appartengono. Da incompetente in materia mi sorge comunque una perplessità: considerato che la vita media di un uomo è cinque volte quella di un lupo è consentito paragonare gli effetti tenuto conto che i tumori, in generale, sono patologie che necessitano di decenni per il loro sviluppo e si manifestano solitamente con l’avanzare dell’età. Se l’età media di un uomo fosse di quindici anni come quella di un lupo potrebbe darsi che anche se sottoposto a radiazioni non svilupperebbe un cancro in un arco così ridotto di tempo. Sulle variazioni del DNA non mi esprimo mancando completamente di cognizioni a tal proposito.

La legge quadro 394 del 1991 ha istituito le aree protette. Se potesse vorrebbe chiedere al legislatore qualche modifica oppure altri tipi di interventi normativi?

Tra le modifiche principali chiederei che gli incarichi di presidente e direttore fossero incompatibili con cariche politiche e collegati necessariamente a un curriculum di attenzione alle tematiche ambientali.
Sarebbe opportuno poi prevedere in pianta organica un vicedirettore con competenze amministrative che affianchi il direttore rafforzando al tempo stesso la componente scientifica nei consigli direttivi delle aree protette o, in alternativa, istituire una vera e propria consulta scientifica del Parco da far lavorare in sinergia con questi ultimi.
Necessario inoltre ampliare le piante organiche (con relativa dotazione finanziaria) con l’inserimento di competenze naturalistiche “tarate” sulle caratteristiche salienti di ciascun Parco (geologi, zoologi, botanici, forestali, veterinari, etc.) e prevedere comunque un corpo di sorveglianza autonomo e indipendente per ciascun Parco, da affiancare ai Carabinieri Forestali (che sarebbe pure utile tornare a separare Carabinieri/Forestali).
A queste richieste si può aggiungere il passaggio delle Riserve statali agli enti parco di competenza territoriale, la ricostituzione della Consulta nazionale per le aree protette, l’obbligatorietà di commissariamento per i Parchi che non producano in 24 mesi Piano e Regolamento, una rivisitazione dei compiti e delle funzioni delle Comunità del Parco affinché svolgano un ruolo più incisivo ecc. ecc.

A proposito della tanto discussa transizione ecologica, lei pensa che sia economicamente sostenibile e conciliabile un passaggio a un tipo di economia che abbia maggiore rispetto dell’ambiente ma che permetta di conservare i guadagni derivanti dalla cultura capitalistica attuale?

Per decenni la crescita economica e la tutela dell’ambiente sono state ritenute strutturalmente contrapposte e la presunzione dello sviluppo senza limiti ha portato all’attuale situazione. Anche i governi delle Nazioni industrializzate nonché le élite del capitalismo mondiale stanno acquisendo la consapevolezza, ob torto collo, di come sia più ragionevole, ed economicamente conveniente, rallentare la crescita e adottare politiche di sviluppo più compatibili con la conservazione delle risorse naturali. Infatti mantenere l’aumento della temperatura del globo entro limiti accettabili costerà molto meno del prezzo che si dovrà pagare se il climate change dovesse dispiegare appieno i suoi effetti.  Gli stessi “servizi ecosistemici” che oggi ci consentono di avere gratuitamente una serie di beni e prestazioni potrebbero diventare “a pagamento”, incidendo sulla spesa dei Governi e delle aziende di produzione. Tra l’altro la transizione viene supportata finanziariamente con i fondi del PNRR il cui utilizzo oculato diventa quanto mai importante. Inoltre molti punti del Piano nazionale di transizione ecologica, penso alla decarbonizzazione, alla mobilità sostenibile o al miglioramento della qualità dell’aria spingeranno verso tecnologie innovative e nuovi posti di lavoro così come altri e penso al ripristino e al rafforzamento della biodiversità, alla tutela del mare, alla promozione dell’economia circolare, della bioeconomia e dell’agricoltura sostenibile, favoriranno attività ad alto tasso di mano d’opera recuperando occupazioni espulse dal mercato a causa della meccanizzazione e informatizzazione che ha modificato il mercato del lavoro negli ultimi decenni.

Ringraziamo Corradino Guacci per la grande disponibilità e la significativa quantità di tempo che ha voluto dedicarci.

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