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Gli ostaggi dell’ambasciata nel 1979: quando gli Usa non bombardavano l’Iran

Manifestazioni in Iran contro gli Usa nel 1979
Manifestazioni in Iran contro gli Usa nel 1979

L’Iran occupò l’ambasciata americana prendendo in ostaggi diversi cittadini. Gli Usa, in conseguenza di quello che è un atto di guerra avrebbero potuto bombardare l’Iran ma non lo fecero, contrariamente a quanto oggi sta facendo Israele. Riproponiamo i risvolti diplomatici e storici della vicenda.

Gli Antefatti

La crisi degli ostaggi americani in Iran del 1979-1981 rappresenta uno degli episodi più controversi e significativi della storia diplomatica contemporanea, con radici profonde che affondano nei rapporti tra Stati Uniti e Iran durante il XX secolo. Il movimento rivoluzionario iraniano, iniziato nel 1978, si affermò all’inizio del 1979 con la partenza in esilio dello scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi nel gennaio e il ritorno trionfale dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni il 1º febbraio. La rivoluzione islamica rappresentò un punto di rottura fondamentale con il passato, mettendo fine a decenni di stretta alleanza tra l’Iran e gli Stati Uniti. Per gli ayatollah al potere, l’occupazione dell’ambasciata e la cattura dei cittadini americani dovevano rappresentare il primo colpo inferto al “Grande Satana”, come la Guida Suprema definiva la potenza occidentale.

Il Colpo di Stato del 1953: Un Precedente Cruciale

Come ricordato correttamente nella richiesta, il colpo di stato in Iran del 1953 costituisce un precedente storico fondamentale per comprendere le tensioni successive. Il colpo di stato fu attuato dallo scià Mohammad Reza Pahlavi per accentrare i poteri, deponendo il primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq, che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera. L’operazione, pianificata congiuntamente dai governi britannico (operazione Boot) e statunitense (operazione Ajax), mirava a ripristinare il controllo occidentale sui redditizi giacimenti petroliferi iraniani. La CIA ebbe un ruolo centrale nel rovesciamento di Mossadeq, con l’operazione Ajax che divenne uno dei primi golpe orchestrati dall’agenzia di intelligence americana. Il colpo di stato lasciò “profonde e durature conseguenze” secondo i documenti declassificati dalla CIA stessa, causando un durevole danno alla reputazione degli Stati Uniti nella regione. Molti rivoluzionari iraniani del 1979 temevano che l’ambasciata americana stesse tramando per il ritorno dello scià, come già successo nel 1953.

Il Primo Assalto all’Ambasciata del 14 Febbraio 1979

Prima dell’occupazione definitiva del novembre 1979, l’ambasciata americana a Teheran era già stata oggetto di un primo attacco il 14 febbraio 1979, giorno di San Valentino. Durante questo primo assalto, portato avanti da un gruppo di rivoluzionari di sinistra, l’ambasciata fu brevemente occupata in un clima di estrema tensione. L’attacco del 14 febbraio fu caratterizzato da intensi scontri a fuoco, con gli assalitori che sparavano dalle terrazze circostanti mentre il personale dell’ambasciata si rifugiava al piano superiore, distruggendo documenti sensibili e apparecchiature di comunicazione8. Tuttavia, questo primo assedio durò solo poche ore e si concluse dopo l’intervento diretto dell’ayatollah Khomeini, che si scusò personalmente con l’ambasciatore americano William Sullivan per l’incidente.

L’occupazione dell’ambasciata Usa il 4 novembre 1979

Il 4 novembre 1979, alle 6:30 del mattino, circa 500 studenti iraniani fedeli alla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini assaltarono l’ambasciata americana a Teheran. I manifestanti, ispirati dalle parole di Khomeini che aveva invitato la popolazione a manifestare contro gli “interessi americani” definiti “Grande Satana” e “nemici dell’Islam”, riuscirono a superare le difese in appena tre ore. Il personale di sicurezza iraniano non oppose resistenza significativa e i marines addetti alla sorveglianza, dotati solo di candelotti lacrimogeni, non riuscirono a respingere l’attacco. Gli studenti presero possesso dell’ambasciata e catturarono inizialmente 66 ostaggi americani, di cui 52 sarebbero rimasti prigionieri per l’intera durata della crisi.

Le Richieste e la Propaganda

Le immagini degli ostaggi con gli occhi bendati fecero il giro del mondo, mentre gli occupanti avanzavano richieste specifiche, principalmente l’estradizione dello scià Mohammad Reza Pahlavi, che si trovava negli Stati Uniti per cure mediche contro il cancro. Gli studenti volevano che lo scià fosse giudicato per i “crimini contro il popolo iraniano”. Nelle settimane successive, tredici ostaggi (donne e afroamericani) furono rilasciati in quanto appartenenti a “minoranze oppresse”, e successivamente fu liberato anche un uomo bianco malato di sclerosi multipla. Sei diplomatici riuscirono a fuggire durante l’assalto e trovarono rifugio presso l’ambasciata canadese, riuscendo poi a lasciare il paese il 28 gennaio 1980 con documenti falsi forniti dalla CIA.

L’Operazione Eagle Claw: Il Fallimento del Salvataggio Militare

Di fronte al fallimento delle negoziazioni diplomatiche, il presidente Jimmy Carter autorizzò il 22 marzo 1980 l’operazione Eagle Claw (nota anche come Evening Light), una missione militare segreta per liberare i 52 ostaggi rimasti. L’operazione fu pianificata dalla Joint Task Force della US Navy e affidata alla Delta Force, l’unità speciale creata nel 1977 dal colonnello Beckwith. La complessità della missione richiedeva l’uso di due basi intermedie nel deserto iraniano. La prima, denominata “Desert One”, fu individuata nella provincia di Khorasan, a circa 300 chilometri a sud-est di Teheran, dove dovevano atterrare due Hercules C-130 per rifornire gli otto elicotteri RH-53D Sea Stallion partiti dalla portaerei USS Nimitz. La seconda base, “Desert Two”, doveva essere stabilita in zona montuosa a circa 60 chilometri dalla capitale. L’operazione iniziò il 24 aprile 1980 con il decollo degli elicotteri dalla portaerei Nimitz nel Golfo di Oman. Tuttavia, la missione incontrò immediatamente gravi difficoltà tecniche e meteorologiche. Una violenta tempesta di sabbia rallentò il viaggio e causò problemi significativi ai velivoli. Tre degli otto elicotteri si guastarono durante il volo: uno si perse nella tempesta di sabbia, un altro ebbe problemi idraulici e un terzo riportò danni alla lama del rotore. Poiché il piano operativo richiedeva almeno sei elicotteri funzionanti per completare la missione, il comandante James Vaught fu costretto ad ordinare l’interruzione dell’operazione.

Il Disastro di Desert One

Il fallimento dell’operazione Eagle Claw si trasformò in tragedia durante la ritirata da Desert One. Mentre gli elicotteri e gli aerei si preparavano a lasciare la base improvvisata nel deserto, uno degli elicotteri RH-53D collise con un C-130 Hercules durante le manovre di decollo. La collisione causò un’esplosione devastante che provocò la morte di otto militari americani e il ferimento di altri quattro. L’incidente costrinse le forze americane a una ritirata precipitosa, abbandonando sul posto equipaggiamenti militari e i corpi delle vittime. Le immagini del relitto nel deserto iraniano divennero un simbolo dell’umiliazione americana.

Conseguenze e Bilancio del Fallimento

Il fallimento dell’operazione Eagle Claw ebbe conseguenze profonde e durature per le forze armate statunitensi. Il disastro evidenziò “un problema significativo radicato nel Dipartimento della Difesa: l’incapacità dei servizi militari di lavorare efficacemente insieme come squadra congiunta durante le operazioni militari”. Come conseguenza diretta del fallimento, i vertici statunitensi crearono il Comando delle Operazioni Speciali degli Stati Uniti, il Comando delle operazioni speciali dell’Esercito, il 160º Special Operations Aviation Regiment e il Naval Special Warfare Development Group. Queste riforme culminarono nel Goldwater-Nichols Department of Defense Reorganization Act del 1986. Il fallimento della missione ebbe anche l’effetto di rafforzare la posizione degli ostaggi iraniani, che furono dispersi in diverse località del paese per prevenire futuri tentativi di salvataggio. L’operazione fallita divenne un simbolo della debolezza americana e contribuì significativamente al declino della popolarità del presidente Carter.

La Liberazione degli Ostaggi e gli Accordi di Algeri

Dopo il fallimento dell’operazione Eagle Claw, la risoluzione della crisi divenne possibile solo attraverso la diplomazia. La svolta nei difficili negoziati arrivò nel settembre 1980, quando diversi fattori contribuirono ad allentare la posizione iraniana: la morte dello scià, l’inizio della guerra Iran-Iraq che richiedeva ingenti capitali, e la crescente pressione economica delle sanzioni americane. La mediazione dell’Algeria fu cruciale per raggiungere un accordo tra le due parti. I negoziati si svolsero per settimane ad Algeri, dove banchieri ed esperti finanziari americani trattarono con gli iraniani attraverso la diplomazia algerina. Per gli Stati Uniti, l’Accordo di Algeri fu negoziato dal vicesegretario di Stato Warren Christopher. Gli Accordi di Algeri furono firmati il 19 gennaio 1981 e prevedevano diversi punti fondamentali. Gli Stati Uniti si impegnavano a non interferire nella politica interna iraniana e a rimuovere i vincoli sui beni dei cittadini iraniani in territorio americano. L’accordo prevedeva anche lo scongelamento dei fondi iraniani depositati presso banche americane e bloccati dall’inizio della crisi. I due stati si impegnarono inoltre a far cessare le controversie in corso e a risolvere quelle future davanti a un Tribunale arbitrale appositamente creato (Iran-United States Claims Tribunal) con sede a L’Aia. L’intesa prevedeva infine la riaffermazione del principio di non ingerenza nelle questioni interne. Gli ostaggi furono materialmente liberati il 20 gennaio 1981, immediatamente dopo l’insediamento di Ronald Reagan come presidente degli Stati Uniti. Il tempismo non fu casuale: la liberazione avvenne esattamente alla fine del discorso di insediamento del nuovo presidente, in quello che molti interpretarono come un deliberato affronto a Jimmy Carter. Quando il comandante dell’aereo che trasportava gli ostaggi annunciò attraverso l’altoparlante che era stato abbandonato lo spazio aereo iraniano, i 52 ex ostaggi iniziarono a urlare di gioia, abbracciandosi in scene di commozione. Dopo 444 giorni di prigionia, l’incubo era finalmente finito.

Le Conseguenze Politiche e Diplomatiche in Usa e Iran

La crisi degli ostaggi rappresentò una grave battuta d’arresto per la presidenza di Jimmy Carter, minando profondamente la sua immagine di leader. La vicenda iraniana influì profondamente sulla campagna elettorale del 1980, contribuendo in modo significativo alla sconfitta di Carter contro Ronald Reagan. Carter impose sanzioni economiche e l’embargo del petrolio iraniano in risposta alla crisi, ma questi provvedimenti non ottennero l’effetto sperato. L’amministrazione Carter aveva “fatto tutto il possibile: mobilitato l’opinione mondiale contro l’Iran, esercitato pressioni sugli alleati per ottenere aiuto” ma senza successo. La gestione della crisi divenne il simbolo dell’inefficacia della politica estera di Carter. Ronald Reagan raccolse “un’eredità intricata” quando entrò in carica, ma il fatto che gli ostaggi fossero stati liberati proprio nel giorno del suo insediamento gli permise di iniziare la presidenza senza questo fardello. La crisi degli ostaggi segnò “l’inizio della lunga storia di contrasti politici tra Teheran e Washington”. Per l’Iran, l’occupazione dell’ambasciata rappresentò il primo successo contro il “Grande Satana” americano, consolidando il potere dei religiosi e indebolendo le posizioni dei moderati. Per gli Stati Uniti, la crisi causò l’inevitabile rottura dei rapporti con l’ex monarchia mediorientale e l’avvio di una serie di sanzioni commerciali che miravano a isolare l’Iran dai mercati globali. Da quel momento, tra Iran e Stati Uniti scese un gelo diplomatico, che si sarebbe sciolto solo molti anni dopo. La crisi stabilì “una lunga animosità tra le due nazioni” che avrebbe caratterizzato le relazioni internazionali per i decenni successivi. Gli effetti di quella che passò alla storia come “crisi degli ostaggi” sono ancora osservabili oggi, a distanza di quarantacinque anni.

L’evento rappresentò un punto di svolta nelle relazioni tra Stati Uniti e Iran, trasformando due paesi che erano stati stretti alleati in nemici dichiarati. La crisi consolidò nell’opinione pubblica americana l’immagine dell’Iran come stato canaglia e terrorista, mentre per l’Iran l’evento divenne il simbolo della resistenza all’egemonia occidentale.

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