Giuseppe Puglisi, chiamato affettuosamente Pino, nacque a Palermo nel quartiere di Brancaccio il 15 settembre 1937. Figlio di un calzolaio e di una sarta, apparteneva a una famiglia modesta. Nel 1953, a soli sedici anni, entrò nel seminario palermitano, sentendo forte la vocazione religiosa. Il 2 luglio 1960, a ventitré anni, venne ordinato sacerdote. I primi anni del suo ministero lo videro impegnato come vicario nella borgata di Settecannoli, rettore della Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi e cappellano all’orfanotrofio Roosevelt. Dal 1970 al 1978 fu parroco a Godrano, un piccolo paese interessato da una feroce lotta tra due famiglie mafiose, dove la sua opera di evangelizzazione riuscì miracolosamente a riconciliare i clan in guerra. Fino al 1990 ricoprì numerosi incarichi diocesani, tra cui pro-rettore del seminario minore, direttore del Centro diocesano vocazioni, docente di matematica e religione. Nel corso degli anni ’80 divenne anche assistente della FUCI di Palermo, con il pieno sostegno del cardinale Pappalardo. Il 29 settembre 1990, la sua vita prese una svolta decisiva quando fu nominato parroco di San Gaetano nel quartiere Brancaccio.
La Sfida nel Territorio della Famiglia Graviano
Il Brancaccio degli anni ’90 era un quartiere sotto il ferreo controllo della mafia. Come emerge dai documenti processuali, si trattava di “un territorio a prevalente sovranità mafiosa”, caratterizzato da “violenza e sottocultura”. Il dominio assoluto era nelle mani dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss legati ai corleonesi di Totò Riina e Leoluca Bagarella. Giuseppe Graviano, soprannominato “Madre Natura” per il potere di vita e di morte che esercitava, era diventato reggente del mandamento di Brancaccio-Ciaculli nel 1990 insieme al fratello Filippo. I Graviano avevano costruito il loro impero economico attraverso omicidi, traffico di droga, estorsioni e investimenti nel settore dei carburanti. In questo contesto, Don Puglisi iniziò la sua opera rivoluzionaria. Come testimoniato nelle sentenze giudiziarie, egli “aveva trasformato la sua parrocchia in una prima linea nella lotta al potere mafioso imperante nel quartiere”, educando “i giovani e le famiglie ad un quotidiano impegno sul territorio”. La sua strategia non consisteva nel tentare di recuperare chi era già entrato nel vortice mafioso, ma nel prevenire l’arruolamento dei giovani da parte delle cosche. Come emerge da atti processuali attraverso attività ludiche e educative, il sacerdote cercava di dimostrare ai ragazzi che “si può ottenere rispetto dagli altri semplicemente per le proprie idee e i propri valori, in onestà e nel pieno rispetto della legge”. Il 29 gennaio 1993, Don Puglisi inaugurò il Centro Padre Nostro per la promozione umana e l’evangelizzazione. Questo centro divenne il simbolo della sua resistenza alla mafia, un luogo dove accogliere i giovani per “toglierli dalla strada e strapparli alla criminalità”. Come descritto dai testimoni, il centro era pensato per “coniugare evangelizzazione e promozione umana”. La rivoluzione di Don Puglisi non si limitava all’aspetto educativo. Per la prima volta nella storia del quartiere, decise di non accettare donazioni dai privati per le feste patronali, sapendo che quei soldi provenivano dai clan mafiosi. Organizzava incontri per discutere del rapporto tra Chiesa e mafia, rifiutava come padrini di battesimo uomini legati alle cosche, apriva la chiesa ai non battezzati e iniziava a dire messa all’aperto. Durante le omelie non esitava a “denunciare la mafia” e a rivolgersi “spesso esplicitamente ai mafiosi”, arrivando a dire dall’altare che “i mafiosi non sono né uomini, né cristiani, che non fanno parte della chiesa”. Il suo impegno andava oltre la dimensione pastorale. Don Puglisi si batteva come cittadino per la riqualificazione del quartiere, promuovendo “la creazione di un centro sanitario, la sistemazione delle fogne, la costruzione di una scuola media”. Distribuiva questionari ai parrocchiani con domande del tipo: “Cosa non funziona nel quartiere? Chi dovrebbe intervenire per garantirvi ciò che vi spetta di diritto?”. Come emerge dalle sentenze, questa “intensa ed instancabile attività di risanamento morale e sociale” rappresentava “un consistente pericolo per l’organizzazione criminale che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era il suo radicarsi”.
Il Supporto delle Istituzioni Ecclesiastiche e l’Isolamento Sociale
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Don Puglisi non fu abbandonato dalla Chiesa. La documentazione disponibile dimostra come il cardinale Salvatore Pappalardo fornisse un sostegno continuo al parroco di Brancaccio. Pappalardo “seguì da vicino la procedura di acquisto della palazzina che ospitò il Centro Padre Nostro, donando 30 milioni per il compromesso”. Inoltre, “accolse con favore la richiesta di ospitare nel Centro le ‘Sorelle dei Poveri’ guidate da suor Carolina e acconsentì alla nomina di Gregorio Porcaro come viceparroco a San Gaetano”, un’eccezione considerando che la diocesi comprende circa 170 parrocchie e molte non disponevano, già allora, di un sacerdote. Nell’estate del 1992, pur mantenendo Puglisi nell’incarico a Brancaccio, l’arcivescovo lo nominò anche “direttore spirituale del corso propedeutico al primo anno del seminario, a conferma della fiducia che riponeva nelle sue capacità di educatore”. Come testimonia una lettera del 13 luglio 1991, Don Puglisi non aveva “alcun problema a incontrare il suo arcivescovo in qualsiasi momento”. Tuttavia, l’isolamento arrivò da altre parti. Come emerge dalle testimonianze processuali, Don Puglisi dovette “assolvere il suo ministero sacerdotale fino alla morte” in un contesto di isolamento “politico e sociale”: “la sua attività sociale, infatti, era osteggiata anche dalle forze politiche che allora reggevano il Consiglio di quel quartiere”. I volontari della parrocchia e del centro avevano “ricevuto intimidazioni e minacce, c’erano stati furgoni e porte incendiati”. Don Puglisi operava con coraggio nonostante sapesse dei rischi.
L’Escalation delle Minacce e l’Assassinio
Le intimidazioni contro Don Puglisi si intensificarono progressivamente. Come riporta un’intervista al Giornale di Sicilia del 26 luglio 1993, il sacerdote reagiva alle minacce mafiose dichiarando: “Spero che i protagonisti delle intimidazioni cambino modo di pensare e tornino alla ragionevolezza”. Pur consapevole del pericolo, aggiungeva: “perché fermarci? Chi usa la violenza non è un uomo, chiediamo a chi ci ostacola di riappropriarsi dell’umanità”. Il 1993 fu “segnato da eventi conturbanti che colpiscono la chiesa e il centro, giovani, adulti e bambini della comunità”. Come testimoniato, “si percepisce, nella ritualità delle minacce, che Cosa nostra sta alzando il tiro”. La decisione di eliminarlo fu presa ai massimi livelli di Cosa Nostra. Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, approvò la scelta dei fratelli Graviano perché Don Puglisi “predicava tutta ‘arnata (la giornata)” e “si purtava i picciotti cu iddu” (portava con sé i ragazzini del quartiere). Lo stesso Riina, in un’intercettazione del settembre 2013, disse che Don Puglisi “voleva comandare il quartiere”. Il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, Don Puglisi visse intensamente la sua ultima giornata: “al mattino aveva celebrato due matrimoni, nel pomeriggio aveva preparato alla confessione i bambini della prima comunione; poi una piccola festa al centro Padre Nostro”. Verso le 20:45, mentre stava rientrando a casa dopo essere sceso dalla sua Fiat Uno bianca, qualcuno lo chiamò. Come ricostruito dal killer Salvatore Grigoli, “Fu una questione di secondi: Spatuzza si avvicinò e gli mise la mano nella sua mano per prendergli il borsello e gli disse piano: ‘Padre, questa è una rapina’. Lui rispose: ‘Me l’aspettavo'”. Poi il colpo di pistola alla nuca sparato da Grigoli. Don Puglisi non aveva mai ricevuto una scorta, né si era mai pensato seriamente di assegnargliela. Come ammesso dallo stesso ambiente ecclesiale, “ci aggrappavamo alla speranza che fosse impossibile arrivare a tanto. Lui stesso se ne usciva con questa battuta: ‘Non si è mai sentito che la mafia uccida i preti…!'”. La sera dell’omicidio, un testimone dell’epoca confessò: “Abbiamo sottovalutato le minacce a padre Puglisi”.
Giustizia e Condanne
I killer di Don Puglisi furono assicurati alla giustizia. Il 19 giugno 1997 venne arrestato Salvatore Grigoli, che confessò l’omicidio e iniziò a collaborare con la magistratura. Grigoli rivelò di aver sparato il colpo mortale mentre Gaspare Spatuzza rubava il borsello al sacerdote. Come mandanti dell’omicidio furono condannati all’ergastolo i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano il 5 ottobre 1999 e il 19 febbraio 2001. Condannati all’ergastolo furono anche Luigi Giacalone, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza e Nino Mangano. Salvatore Grigoli fu condannato a 16 anni, poi ridotti a 18 con gli sconti di pena, e nel luglio 2004 ottenne gli arresti domiciliari.
Don Pino Puglisi: L’Eredità Morale e il Riconoscimento della Chiesa
Il 25 maggio 2013, davanti a circa centomila fedeli al Foro Italico di Palermo, Don Pino Puglisi fu proclamato beato, diventando “la prima vittima di mafia riconosciuta come martire della Chiesa”. Papa Francesco, durante la celebrazione, disse: “Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto”.
L’eredità di Don Puglisi vive principalmente attraverso il Centro di Accoglienza Padre Nostro, che “oggi ha diverse sedi in Sicilia e si occupa di dare supporto alle fasce sociali più deboli: bambini, anziani, detenuti in esecuzione penale esterna, mamme e donne vittime di abusi, senzatetto”. Come sottolinea l’attuale presidente Maurizio Artale, “l’eredità di padre Puglisi è aver creato una comunità e averle fatto capire che affidarsi alla mano mafiosa non era una scelta obbligata ma c’era un’alternativa”. Il 21 ottobre di ogni anno si celebra la memoria liturgica del beato. La sua figura continua a ispirare iniziative educative e sociali in tutta Italia. Nel 2024 è stato inaugurato a Roma il Polo della Carità “Don Pino Puglisi”, mentre a Brancaccio sono iniziati i lavori per la costruzione della chiesa sognata dal sacerdote su un terreno di 12.000 metri quadrati confiscato alla mafia. Come afferma l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, “nel martirio in odium fidei c’è l’eredità di Pino Puglisi per la Chiesa palermitana perché è una fede che si incarna nella concreta vita degli uomini e delle donne”. Il suo celebre motto “se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto” continua a guidare chi opera per la legalità e la giustizia sociale.
Leggi anche Cos’è la Direzione Nazionale Antimafia e perché ne abbiamo bisogno
Ancora nessun commento.