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La Primavera di Praga: dalla protesta all’invasione Sovietica

Manifestanti Cecoslovacchi durante le proteste della Primavera di Praga
Manifestanti Cecoslovacchi durante le proteste della Primavera di Praga

Nel 1968, la Cecoslovacchia si trovava al centro di un delicato equilibrio geopolitico durante uno dei momenti più tesi della Guerra Fredda. Il paese faceva parte del Patto di Varsavia dal 1955 e rappresentava uno dei baluardi del blocco sovietico nell’Europa orientale. La leadership di Mosca, guidata da Leonid Brežnev, considerava il controllo dell’Europa orientale essenziale per la sicurezza dell’URSS, sia come zona cuscinetto contro la NATO che come fonte di risorse industriali strategiche. La situazione internazionale era caratterizzata dalla coesistenza pacifica tra i due blocchi, ma anche da una crescente tensione dovuta alla corsa agli armamenti nucleari. L’Unione Sovietica temeva che qualsiasi allentamento del controllo sui paesi satelliti potesse incoraggiare movimenti simili in altre nazioni del Patto di Varsavia, minacciando così l’intero sistema di alleanze comuniste.

L’Origine della Primavera di Praga

Le radici della Primavera di Praga affondano nei problemi economici e sociali accumulati durante vent’anni di dominio staliniano. L’economia cecoslovacca stagnava nonostante le ricche risorse industriali del paese, e il malcontento popolare cresceva a causa dell’inflazione, delle carenze alimentari e della mancanza di libertà fondamentali. Nel 1965 era stato introdotto il “Nuovo Modello Economico” del riformatore Ota Šik, che prevedeva una parziale liberalizzazione dell’economia centralizzata. Tuttavia, fu nel gennaio 1968 che la situazione politica cambiò drasticamente con l’ascesa di Alexander Dubček.

L’Elezione di Dubček

Il 5 gennaio 1968, Alexander Dubček fu eletto Primo Segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, sostituendo Antonín Novotný. Inizialmente considerato un candidato di compromesso, Dubček era visto dall’URSS come una “scelta sicura” – Brežnev stesso lo chiamava affettuosamente “il nostro Sasha”. Tuttavia, Dubček si rivelò ben diverso dalle aspettative sovietiche. Nel marzo 1968, Ludvík Svoboda, un eroe di guerra della Seconda Guerra Mondiale, sostituì Novotný come presidente della Cecoslovacchia. Il nome stesso di Svoboda, che in ceco significa “libertà”, divenne simbolico del movimento di riforma.

Il Programma d’Azione di Aprile

Nell’aprile 1968, Dubček lanciò il rivoluzionario “Programma d’Azione” che prometteva un “socialismo dal volto umano”. Le riforme includevano:

  • Libertà di stampa: Abolizione della censura preventiva
  • Libertà di espressione: Diritto di critica al governo
  • Libertà di movimento: Possibilità di viaggiare all’estero
  • Riabilitazione delle vittime: Delle purghe staliniane
  • Decentramento economico: Introduzione di elementi di mercato
  • Federalizzazione: Parità tra cechi e slovacchi
  • Sistema giudiziario indipendente: Separazione dei poteri

Il programma prevedeva una transizione decennale verso un sistema multipartitico democratico, pur mantenendo la guida del Partito Comunista.

La Risposta della Popolazione

La reazione popolare fu straordinaria. Per la prima volta in vent’anni, i cecoslovacchi potevano discutere liberamente di politica. I mezzi di comunicazione iniziarono a trasmettere programmi di dibattito politico che si protraevano fino a tarda notte, seguiti con entusiasmo dalla popolazione. Come raccontò un tassista dell’epoca: “Nessuno parla più di calcio nel mio pub locale, ora parliamo solo di politica”. Nacquero nuove organizzazioni politiche indipendenti: il K 231 (formato da ex prigionieri politici), il KAN (club degli intellettuali non comunisti), e si tentò persino di ricreare il Partito Socialdemocratico. Il movimento giovanile comunista ufficiale collassò, sostituito da club giovanili e scout.

Le Proteste e la Resistenza Pacifica

Il punto culminante del movimento di protesta fu il manifesto delle “Duemila Parole” pubblicato il 27 giugno 1968 dallo scrittore Ludvík Vaculík. Il documento, firmato da personalità di ogni settore della società cecoslovacca, chiedeva azioni di massa per ottenere una vera democrazia e metteva in guardia contro le forze conservatrici e “straniere”. Sebbene Dubček e la leadership del partito condannassero il manifesto, esso rappresentò un momento di svolta che dimostrò come il movimento riformista fosse sfuggito al controllo delle autorità.

L’Operazione Danube

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, circa 250.000 soldati del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia nell'”Operazione Danube”. L’invasione coinvolse forze armate di cinque paesi: Unione Sovietica, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Germania Est. La Romania e l’Albania rifiutarono di partecipare. La potenza militare dispiegata fu impressionante: si trattò della più grande mobilitazione militare in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, secondo alcune fonti sarebbero stati usati circa 5000 carri armati. Le truppe sovietiche conquistarono rapidamente l’aeroporto di Praga e i punti strategici della capitale. Entro 24 ore, l’intero territorio cecoslovacco era sotto controllo militare. Il governo cecoslovacco, per evitare spargimenti di sangue, ordinò alle proprie forze armate di non resistere all’invasione. La popolazione rispose con una straordinaria resistenza passiva: cartelli stradali furono rimossi per confondere gli invasori, le stazioni radio continuarono a trasmettere appelli alla resistenza, e migliaia di cittadini si posizionarono davanti ai carri armati offrendo fiori ai soldati. Nonostante la natura non violenta della resistenza, l’invasione causò 137 morti tra i civili cecoslovacchi e 500 feriti gravi nel primo periodo. La maggior parte delle vittime si verificò nei primi giorni, con oltre 50 morti già il primo giorno dell’occupazione.

La Risposta Occidentale

La risposta dei paesi occidentali all’invasione fu caratterizzata da una condanna diplomatica ma dall’evitamento di un confronto militare diretto. Gli Stati Uniti e i loro alleati NATO protestavano fermamente, ma si astenevano da azioni militari dirette o operazioni coperte per contrastare l’incursione sovietica. Documenti declassificati britannici rivelano che Washington e Londra temevano seriamente che l’invasione rappresentasse un tentativo di Mosca di rafforzare la presa sull’Europa orientale e di estendere la propria influenza altrove. La principale preoccupazione era che, se l’Unione Sovietica avesse continuato l’espansione (ad esempio verso l’Austria), la Germania potrebbe essersi ritirata dalla NATO, causando il collasso dell’alleanza. La risposta iniziale della NATO fu deliberatamente cauta: forte disapprovazione dell’invasione e chiara indicazione che l’alleanza non sarebbe rimasta a guardare se i sovietici avessero esteso la loro aggressione ad altri paesi. Tuttavia, fu concordato di evitare azioni militari che potessero fornire ai sovietici una scusa per ulteriori azioni militari o atti repressivi contro i cecoslovacchi.

Il Protocollo di Mosca

Dubček e gli altri leader cecoslovacchi furono arrestati e portati segretamente a Mosca. Il 27 agosto, sotto la pressione sovietica, furono costretti a firmare il “Protocollo di Mosca”, che prevedeva la permanenza delle truppe sovietiche in Cecoslovacchia e controlli più rigidi sulle attività politiche e culturali. Nell’aprile 1969, Gustav Husák sostituì Dubček come Primo Segretario. Husák avviò il processo di “normalizzazione”, volto a eliminare ogni traccia della Primavera di Praga e a ingraziarsi l’Unione Sovietica. Le riforme furono sistematicamente annullate e molti riformatori furono rimossi dalle loro posizioni.

La Dottrina Brežnev

A giustificazione dell’invasione, Brežnev formulò la cosiddetta “Dottrina Brežnev”, secondo cui l’Unione Sovietica aveva il diritto e il dovere di intervenire in qualsiasi paese socialista dove il dominio comunista fosse minacciato. La dottrina stabiliva che “il destino di qualsiasi paese socialista è un affare comune di tutti i paesi socialisti”.

Simboli di Resistenza: Jan Palach

Il 16 gennaio 1969, lo studente Jan Palach si diede fuoco in Piazza Venceslao a Praga per protestare contro l’occupazione sovietica e l’imminente “normalizzazione”. Il suo sacrificio divenne simbolo della resistenza alla repressione e ispirò manifestazioni di massa, nonostante il regime di Husák vietasse la commemorazione pubblica di Palach. La Primavera di Praga rappresentò un momento cruciale nella storia della Guerra Fredda, dimostrando che il sistema comunista sovietico poteva funzionare solo attraverso la severa limitazione delle libertà individuali. Sebbene brutalmente repressa, la Primavera lasciò un’eredità duratura: il rinnovamento degli ideali democratici e la dimostrazione delle crepe nell’armatura del regime comunista. L’invasione del 1968, prevenendo la riforma, contribuì paradossalmente al declino del sistema sovietico, preparando il terreno per il crollo finale del comunismo nell’Europa orientale vent’anni dopo. Come osservò nel 1987 Mikhail Gorbačëv, la sua “glasnost” e “perestroika” riflettevano l’influenza della Primavera di Praga.

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